Il libro del Tigullio: un capolavoro editoriale degli anni ’70 ci ricorda come eravamo


Si fa presto a dire Liguria. In realtà di Liguria ce ne sono diverse, per lungo e per largo. C’è la Riviera di Ponente e quella di Levante, c’è il versante mediterraneo e quello padano, c’è Genova e poi c’è quella fetta di terra che taglia in due il Promontorio di Portofino, si spinge fino al “Passo del Bracco”, sale fino al Maggiorasca e torna verso la costa seguendo tre fili – il Lavagna, lo Sturla e il Graveglia – che a un bel momento si annodano per aprirsi la via del mare, quel mare che in lingua genovese si dice , allo stesso modo che “male”. E’ questa una “Liguria particolare”, che deve il suo nome alle tegole di ardesia strappata al Monte San Giacomo, alle spalle di Lavagna, “tra il Graveglia e il Gromolo, sopra Cogorno e Santa Giulia. Da quelle cave forse provenivano anche le ciappe che delimitavano le tombe della necropoli di Chiavari. Da quel monte gli uomini delle tribù primitive avevano tratto le leggere lastre di pietra facilmente utilizzabili come selciati e coperture: tegole, appunto, da cui i nomi di Tegulata e Tigulli”. È la fine dei tormentati anni ’70 quando viene dato alle stampe il “Libro del Tigullio. Dal mare alle valli: testimonianze di civiltà ligure”, un elegante cartonato della casa editrice SIAG corredato dalle magnifiche istantanee di Cesare Ferrari. Un’enciclopedia di tutta la bellezza che è stato possibile cavare da questa terra. A vergarlo, in una prosa che tocca vere e proprie vette liriche, un giornalista alassino, Giannetto Beniscelli (1917-2005), figlio del grande pittore Alberto. I confini del Tigullio individuato da Beniscelli sono quelli scolastici: tagliano fuori il Golfo Paradiso e anche l’alta Val di Vara. Nitida è l’intenzione di isolare questo frammento di Riviera fatto di “pietra, dura a sfaldarsi e a sparire”, dall’ingombrante ombra genovese, senza ovviamente tacerne derivazioni, influssi e appartenenza storica.